Diciamo subito che balena è solo un termine che usiamo per antonomasia – per noi contemporanei è abbastanza facile, la balena è un mammifero, che è sempre meno estraneo di un pesce, ed è considerata pacioccona. In realtà, tanto per complicare un po’ questo concetto sintetico, in diverse culture, dall’Africa alla Polinesia, lo stesso ruolo è ricoperto dall’idea generica di mostro marino. Del resto fino a poco tempo fa anche in Europa la balena era considerata un pesce, e prima che Matteo lo ribattezzasse balena nel suo vangelo, il mostro di Giona era solo un grande pesce; analogamente, prima della cura Disney (a proposito, la balena disneyana si chiama Monstro, parola portoghese per mostro), la balena di Pinocchio era il terribile Pesce-cane, «più lungo di un chilometro, senza contare la coda» (parola di Collodi).
L’idea del soggiorno nel ventre del mostro marino sembra rimandare quasi sempre a un periodo di maturazione, a un ritiro non cercato ma necessario, che ha conseguenze positive nella vita di chi lo affronta.
Le prime idee sulla balena le troviamo in Medio Oriente. Nun significa «pesce» in aramaico, e rimanda all’idea di passare incolumi attraverso le tempeste marine, cioè di mantenere felicità e benessere interiore anche durante le bufere emotive. In arabo nūn significa genericamente «grande pesce» e «balena» in particolare, a testimoniare ancora che la distinzione tra i due concetti è cosa recente. Secondo Eva Meyerovich, ricercatrice del Centre national de la recherche scientifique, la forma della lettera, in arabo, rappresenterebbe l’Arca di Noè, dunque ancora una volta c’è l’idea di qualcosa che resiste, che attraversa una crisi senza risentirne.
Stando alla generica interpretazione occidentale, la balena – o il mostro marino, o il pescecane – rappresenta l’inconscio. Giona riceve da Dio l’ordine di andare a profetare in una città parecchio difficile, Ninive, e non ne vuole sapere. Cerca di fuggire, si imbarca, Dio lo richiama e lui pur di non rispondere alla chiamata si fa gettare in mare, dove il Grande Pesce, inghiottendolo, lo salva dai flutti. E proprio qui, nel ventre della balena, finalmente Giona invoca Dio: vuol essere tirato fuori. Giona rifiutava la propria vocazione, si opponeva al diventare la persona che era destinato a diventare, e un lungo viaggio nel buio gli fa tornare finalmente la voglia di confrontarsi con il mondo.
Nel ventre della balena ci finisce anche il Barone di Münchhausen che, una volta inghiottito, inizia a dimenarsi come un forsennato senza sortire effetti; fortunatamente per lui, la balena viene pescata e il barone ne esce nudo al cospetto dei marinai allibiti. Se vale la metafora della balena come inconscio, come immersione necessaria nel buio delle proprie emozioni più recondite, chissà che significa dimenarsi senza risolvere nulla e uscirne solo grazie all’intervento degli altri, lasciandosi sorprendere come mamma ci ha fatti.
Certamente è meglio passare del tempo nella balena piuttosto che avere con lei un rapporto conflittuale dall’esterno: l’Achab di Moby Dick non è l’emblema della fortuna, nemmeno caratterialmente. In fondo, come il tunnel di chi aspetta la proverbiale luce in fondo al tunnel, anche il ventre della balena si può arredare: ce lo insegna il Geppetto del Pinocchio Disney, che dentro la balena si costruisce praticamente una casa.
È possibile che a Collodi l’ispirazione sia venuta in seguito alla lettura dell’immaginifica Storia vera di Luciano di Samosata (II d.C.), pubblicata nel 1861 nella traduzione di Luigi Settembrini. Il protagonista della Storia Vera, Luciano – la Storia vera è una sorta di autobiografia fantastica – trascorre diverso tempo, insieme al suo equipaggio, in una balena gigantesca, che contiene un intero mondo, con terra, flora, fauna e civiltà (il mostro marino di Luciano è proprio una balena, non un pescecane o un animale non specificato). Le prime persone che Luciano incontra dentro la balena sono un vecchio e un ragazzo che ci vivono, dice il vecchio, da ventisette anni. Con cinico sarcasmo Luciano racconta la storia di ciò che accade nella balena: lui e i suoi si stabiliscono, sterminano i popoli che già vi abitavano, occupano le loro città, per poi, dopo quasi due anni, non poterne più. Sicché ne escono dando fuoco a tutto: il Pinocchio di Collodi non sposerà questo metodo, ma il Pinocchio di Disney gli andrà vicino.
C’è un particolare, al termine della vicenda collodiana, dopo la fuga dal Pesce-cane, che attira l’attenzione del lettore: un Geppetto animato da uno spirito nuovo è intento a intagliare una cornice di legno decorata con figure di piante e animali. Geppetto sta forse dando una nuova, allegra cornice alla storia di Pinocchio, che ha trovato una risoluzione felice? O forse la cornice è simbolo della necessità che Pinocchio, divenuto un bambino vero, accetti dei limiti e lasci al di fuori di quei limiti il suo rapporto magico con il mondo naturale? O Collodi sta forse suggerendo che il viaggio nel buio interiore ha aiutato Geppetto a rimettere, come dire, le cose nelle giuste cornici, a relativizzarle, dare loro dei limiti e un contesto, metter loro dei paletti? Il bello dei simboli è che suggeriscono, e poi ci lasciano liberi.
Bibliografia
Il libro di Giobbe, Feltrinelli 2017
R.E. Raspe, Il barone di Münchhausen, De Agostini 2020
Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Giunti 2020
Herman Melville, Moby Dick, Newton Compton 2014
Immagine di copertina: Pieter Lastman, Giona e la balena, 1621. Pubblico dominio via Wikimedia Commons
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